embolos/embolon (ἔμβολος, ὁ/ἔμβολον, τό), embolē (ἐμβολή, ἡ), emballō (ἐμβάλλω)
Il sostantivo ε, analogamente a ἐμβολή, deriva dal verbo ἐμβάλλω, a sua volta composto dal preverbio ἐν- unito al verbo βάλλω, «lanciare, colpire (lanciando)». Esso si riconnette alla radice IE *gwelh1– «colpire lanciando», per cui la presenza della labiovelare sonora *gw– è assicurata dalla forma Arc. δέλλω; cfr. prob. Av. ni-γrāire (Beekes & van Beek, 2010).
Hsch. T1212 s.v. τοὺς ἐμβόλους: τὰ ἔμβολα τῶν νεῶν […], ma cfr. anche Hsch. E2307 s.v. ἔμβολα: Εὐριπίδης Παλαμήδῃ καὶ Σκίρωνι ἔμβολα. τὸ δὲ πολὺ ἀῤῥενικῶς λέγουσι τοὺς ἐμβόλους. Esichio usa ἔμβολον anche come traduzione del latinismo ῥῶστρον (Hsch. Ρ594) e come glossa per l’uso poetico (A. Pers. 408, ma cfr. anche Pi. P, 2.62 ed E. IT 1135) di στόλος nel senso di «rostro» (Hsch. Σ1909 στόλος· […] καὶ ὁ τῆς νεὼς ἔμβολος λέγεται, τὸ εἰς ὀξὺ συνεστραμμένον).
Suid. E952: Ἔμβολος· χάλκωμα πεπυρωμένον, περιτιθέμενον κατὰ πρώραν ταῖς ναυσίν (cfr. Greg. Cor. De dialecto Ionica CVIII s.v. Ἔμβολον, Ps-.Zonar. p. 702 s.v. Ἔμβολα). Cfr. inoltre Suid. E953, s.v. Ἔμβολον (per cui qui propriamente si intenderebbe una formazione a cuneo della fanteria), dove si aggiunge: καὶ (scil. τὸ ἔμβολον) τῆς νηὸς τὸ πολεμικὸν σιδήριον. Suid. E947 s.v. Ἔμβολα: […] ἔμβολά τε νηῶν γενόμενοι οὐδὲν ὤνησαν οἱ ἀνδριάντες. ἐν Ἐπιγράμμασι· ἔμβολα χαλκογένεια, φιλόπλοα τείχεα νηῶν, Ἀκτιακοῦ πολέμου κείμεθα μαρτύρια.
Con il significato di «rostro» il vocabolo ἔμβολος (maschile) si trova attestato in Hdt. 1 166.2, Tab.Heracl. 1.166, 182; nella forma ἔμβολον (neutro) in AP 6 236.1 (Ἔμβολα χαλκογένεια). Dubbio se sia neutro o maschile in Pi. P. 4.191 e Thuc. 7 36.3. Al plurale (οἱ ἔμβολοι) ricalca il latino rostra, indicando la tribuna degli oratori (Plb. 6 53.1, Plu. Cat. Mi. 44.4). Un significato analogo è espresso talvolta anche dal verbo ἐμβάλλω (intransitivo), che può significare «attaccare, lanciarsi contro» altre navi (+ dat.), generalmente con l’obiettivo di speronarle (Hdt. 8 84.2, Hdt. 8 87.2, Hdt. 8 87.4, Hdt 8 90.2, Hdt. 8 92.1, Hdt. 8 92.2, Thuc. 4 14.1, FGrHist 176 1, Plb. 16 4.14, Suid. Δ 910). Anche il sostantivo ἐμβολή nel contesto di una naumachia può indicare un assalto (A. Pers. 409, Thuc. 2 84.1, Thuc. 2 89.8, Thuc. 7 70.4, FGrHist 176 1, Plb. 1 28 11, Plb. 1 51.6). In Eschilo ἐμβολή si trova con il significato concreto di «rostro» (A. Pers. 415 αὐτοὶ δʼ ὑπʼ αὐτῶν ἐμβόλαις χαλκοστόμοις / παίοντʼ): Stanley suggerisce nel suo commento l’emendazione normalizzante ἐμβόλοις (Stanley & Butler, 1816), inutile secondo Garvie, perché in questo caso si potrebbe trattare di una metonimia (Garvie, 2009); cfr., inoltre, Thuc. 2 76.4, dove ἐμβολή, sebbene non in contesto nautico, è usato ancora nel senso concreto senso di «rostro, ariete»: ἡ δὲ ῥύμῃ ἐμπίπτουσα ἀπεκαύλιζε τὸ προῦχον τῆς ἐμβολῆς.
Secondo un’ipotesi abbastanza recente formulata da Mark (Mark, 2008) – e considerata condivisibile anche in seguito ad analisi condotte sperimentalmente su modelli (Murray, Ferreiro, Vardalas, & Royal, 2017) – il rostro vero e proprio sarebbe un’evoluzione del tagliamare, che serviva unicamente a migliorare l’idrodinamica delle imbarcazioni. Così, per esempio, si dovrebbe interpretare il prolungamento che si vede spesso nelle raffigurazioni delle navi fenicie, in apparenza poco adatte, per il resto, a sostenere l’urto di un assalto – cfr. contra le osservazioni di Fawcett (Fawcett, 1994, pp. 84-85). Lo stesso vocabolo ε, analogamente, potrebbe aver subito un’evoluzione legata a quella del suo referente, creando confusione per gli studiosi moderni: è possibile che in un primo momento indicasse un generico aggetto (si consideri che ἔμβολος può essere definita anche una lingua di terra, Hdt. 4 53.6 ἔμβολον τῆς χώρης, vd. → ἔμβολος, ὁ, sc. τῆς χώρης ἐ.) e così sarebbe da intendere nelle prime attestazioni (Hippon. fr. 39 Degani = 28 West ἀπ’ ἐμβόλου […] πρὸς κυβερνήτην e, forse, anche in Hdt. 1 166.2, per cui vd. infra; il termine è del tutto assente dalla dizione omerica, dove invece si trova la parola → στεῖρα a indicare ciò che verosimilmente è da intendersi come tagliamare oppure dritto di prua).
Più tardi, probabilmente intorno alla metà del VI sec., i Greci (forse i Focesi) cominciarono a usare il tagliamare come mezzo offensivo negli scontri. Una prova che esso non sia stato concepito per questo scopo potrebbe essere la testimonianza erodotea circa le cattive condizioni in cui versavano le navi focesi in seguito allo scontro di Alalia con i Cartaginesi e gli Etruschi (535 a.C.): ἀπεστράφατο γὰρ τοὺς ἐμβόλους (Hdt. 1 166.2).
Nella tattica dello speronamento si specializzò la flotta ateniese, in particolare in vista del conflitto con i Persiani (Fawcett, 1994), anche al fine di evitare i combattimenti corpo a corpo sui ponti, che avrebbero sicuramente penalizzato l’esercito meno numeroso. Questo potrebbe spiegare l’affermazione di Erodoto, per cui le navi greche erano più pesanti di quelle dei loro nemici (Hdt. 8 60α ἡμῖν […] νέας ἔχουσι βαρυτέρας καὶ ἀριθμὸν ἐλάσσονας): tale pesantezza potrebbe essere giustificata non in ragione del numero di epibati a bordo (Lazenby, 1987) o dell’impossibilità, per mancanza di tempo, di essere tirate in secca e asciugate (Morrison J. S., 1991), ma della maggiore solidità strutturale, tale da permettere di resistere a un violento impatto (Mark, 2008, pp. 268-270). In effetti, ben diverso è un tagliamare, magari pure rinforzato con lamine di metallo battuto – così si potrebbe dedurre dagli affreschi di Til Barsip (Mark, 2008, pp. 259-261), da un rostro, il quale richiede che l’intera struttura della nave sia progettata di conseguenza – come avrebbe insegnato l’esempio di Alalia (vd. supra).
Le navi ateniesi dotate di ε, dunque, erano realizzate così da resistere all’urto dello speronamento contro la fiancata o la poppa delle navi nemiche, ma avevano anche dei limiti. Innanzitutto non erano adatte a sostenere un attacco frontale: per sfruttare come arma il rostro erano necessarie manovre preliminari (le più note sono il → περίπλους e il → διέκπλους) che permettessero di posizionarsi perpendicolarmente o alle spalle della nave che si intendeva colpire. In caso di attacchi frontali, le triremi ateniesi di tipo «temistocleo» (simili cioè a quelle usate durante le guerre persiane) si sarebbero trovate in grave difficoltà (Morrison & Coates, 1986, pp. 167-168): approfittando di tale debolezza i Corinzi nel 415/4 allargarono e resero più solide le epotides delle loro navi e, in battaglia, costrinsero le triremi ateniesi in uno spazio privo di margine di manovra (battaglia di Naupatto: Thuc. 7 34). Il successo riscosso dalla flotta corinzia portò i Siracusani ad adottare ancora lo stesso espediente (Thuc. 7 36; a proposito Pelling, 2022, pp. 155-157), rinforzando le prue delle loro navi (Thuc. 7 36.2: καὶ τὰς πρῴρας τῶν νεῶν ξυντεμόντες ἐς ἔλασσον στεριφωτέρας ἐποίησαν) così da potere speronare le navi nemiche pur in assenza di spazio di manovra – per questo motivo le navi ateniesi ebbero la peggio nel Grande Porto di Siracusa, dove non avevano spazio di sfruttare la loro agilità per aggirare le navi siceliote e speronare loro la poppa o i fianchi. In quest’occasione Nicia infatti si disse costretto a rinunciare alla tattica più familiare alla flotta ateniese, affidandosi invece al combattimento sui ponti (Thuc. 7 62 1-4, cfr. Thuc. 7 67 2; Morrison, 1968, pp. 313-325). Il riferimento tucidideo alla «fragilità» delle prue delle navi ateniesi, pertanto, deve essere inteso non in senso assoluto, e dunque in contraddizione con quanto detto sopra circa la progettazione delle navi ateniesi come solide armi da speronamento, ma relativamente alla nuova concezione delle navi siracusane (e, prima ancora, corinzie), progettate per colpire frontalmente: Thuc. 7 36.3 ἐνόμισαν γὰρ οἱ Συρακόσιοι πρὸς τὰς τῶν ᾿Αθηναίων ναῦς […] λεπτὰ τὰ πρῴραθεν ἐχούσας διὰ τὸ μὴ ἀντιπρῴροις μᾶλλον αὐτοὺς ἢ ἐκ περίπλου ταῖς ἐμβολαῖς χρῆσθαι, οὐκ ἔλασσον σχήσειν […]· ἀντιπρῴροις γὰρ ταῖς ἐμβολαῖς χρώμενοι ἀναρρήξειν τὰ πρῴραθεν αὐτοῖς, στερίφοις καὶ παχέσι πρὸς κοῖλα καὶ ἀσθενῆ παίοντες τοῖς ἐμβόλοις. Per attacchi frontali cfr. anche Arr. Anab. 1 19.10 Ἀλέξανδρος δέκα ναῦς […] πέμπει ἐπʼ αὐτὰς κατὰ σπουδήν, ἐμβάλλειν ἀντιπρώρους κελεύσας.
Inoltre, navi che sacrificavano all’agilità anche la presenza di epibati a bordo, quelle «temistoclee» in primis, erano probabilmente costrette a indietreggiare immediatamente dopo l’assalto anche per evitare che i rematori subissero offese dai soldati nemici (Thuc. 2 89.8, Plb. 16 4.13, Dio 50.32.2, Luc. 3.553-554; Morrison & Coates, 1996, p. 363). Per proteggere i rematori dalle frecce scagliate dagli epibati avversari le navi erano spesso munite di παραρύματα/παραβλήματα (Aisch. Supp. 715, Xen. Hell. 1.6.19, 2.1.22, IG II2 1611 passim, 1627 passim; Morrison & Coates, 1986, p. 151; Morrison & Coates, 1996, pp. 256, 286, 326; Strauss, 2000, p. 318), ma questa protezione difficilmente sarebbe stata sufficiente nel caso in cui la nave si fosse trattenuta troppo nei pressi di quella appena colpita o, peggio, vi fosse rimasta incastrata (il riferimento a una nave incastrata si trova già in Hdt. VIII 84.1, mentre per un combattimento conseguente all’impossibilità di staccarsi dalla nave nemica si veda Diod. 20.51.2; diverso è il caso di Plb. 16.3.3-6, in cui una nave pesante, incastratasi in una più leggera, è svantaggiata non a causa del combattimento, ma perché risulta ingovernabile).
Il sistema della nave veloce fu di gran lunga il più usato dagli Ateniesi fino alle porte dell’età ellenistica (vd. infra), sebbene non in maniera esclusiva. In caso di operazioni che prevedevano anche il dispiegamento di forze su terra, infatti, poteva capitare che si decidesse l’invio congiunto sia di navi cariche di opliti, sia di navi più agili – esemplare in questo senso la flotta inviata in Sicilia nel 415, per la quale secondo Tucidide era stato finanziato pubblicamente l’allestimento di sessanta navi «veloci» e quaranta per il trasporto di opliti (Thuc. 6 31.3 τοῦ μὲν δημοσίου […] ναῦς παρασχόντος κενὰς ἑξήκοντα μὲν ταχείας, τεσσαράκοντα δὲ ὁπλιταγωγοὺς; Morrison & Coates, 1986, p. 152). Oltre alle conseguenze di tattica militare, d’altra parte, bisogna anche tenere conto del portato ideologico dell’affidamento sui rematori piuttosto che sugli epibati, come giustamente evidenzia Strauss, a cui si rinvia per ulteriore bibliografia (Strauss, 2000): in questa prospettiva è stato anche letto il tentativo cimoniano di inversione di tendenza (Plut. Cim. 12.2, 13.1-3) come segno di un programma politico. L’equipaggio era infatti costituito dalla componente meno abbiente della popolazione (oltre a stranieri e meteci, anche i più poveri tra i cittadini), mentre gli epibati erano opliti e perciò espressione dei ceti più benestanti.
Ancora nel 323 Atene faceva affidamento su una flotta costituita prevalentemente da triremi e tetreri (IG II2 1631 167-74, Diod. 18.10.2; Morrison, 1987): mentre alcune triremi erano sicuramente adibite al trasporto di uomini o cavalli (→ ἱππαγωγός; per le navi ἱππηγοί/ίππαγωγοί si veda una breve introduzione in Morrison & Coates, 1986, pp. 156-157), altre mantenevano la funzione di navi da speronamento insieme alle tetreri – navi, queste ultime, attestate ad Atene a partire dal 330/329 (IG II2 1627 275-278), più solide delle triremi ma comunque le più agili nella categoria delle polieri (→ πολυήρης).
Nel corso dell’età ellenistica (per cui si veda Morrison & Coates, 1996), da un lato si continuò talvolta a concepire la nave stessa come arma per annichilire quelle nemiche, come nel caso della flotta rodia, principale «erede» di quella ateniese (Plb. 16 4.10 , Liv. 37.23-4, App. BC 4.71; Morrison & Coates, 1996, pp. 359 segg., De Souza, 2007, pp. 435-7). Tuttavia sempre in quest’epoca si ebbe come originale sviluppo della tattica dello speronamento il suo utilizzo preliminare all’abbordaggio, così che alla pratica di indietreggiare immediatamente appena colpita la nave nemica (vd. supra) subentrò quella di impedire a quest’ultima di allontanarsi: ciò spiega perché si ritrovi ancora il rostro nelle varie classi di polieri, navi strutturalmente più pesanti e meno agili delle triremi, adatte al trasporto di un buon numero di epibati (si consideri, oltre alle fonti storiografiche citate sotto, anche lo sgraffito di Nymphaion, raffigurante probabilmente una pentere: si tratta di una tra le rappresentazioni ellenistiche più antiche che, a differenza di quelle che compaiono sulle monete, rappresenta l’intera nave e non solo la prua; per l’iconografia delle navi da guerra si veda Morrison & Coates, 1996, 177-254, spec. 207-214 sullo sgraffio di Nymphaion, sulla cui interpretazione, contra, si veda anche Murray, 2001). Esempi di tale modalità d’azione si trovano nei resoconti di naumachie condotte dai macedoni (per esempio la battaglia di Chio del 201, Plb. 16 3-4) e dai romani (es. Liv. 26.39.7; notevole in App. BC 4.71 la contrapposizione tra lo stile di combattimento romano e quello rodio) – ovviamente è bene non considerare rigidamente la dicotomia tra la strategia ateniese-rodia e quella macedone-romana, distinguendo tra momenti e contesti (per esempio si vedano i diversi stili di combattimento dei Cesariani e Antoniani ad Azio, secondo Dio 50 32.1). Per trattenere la nave nemica e favorire il passaggio degli epibati già in precedenza era stato elaborato l’espediente di rampini di ferro (σιδήρεαι χεῖρες), a cui, secondo Tucidide, sarebbe ricorso Nicia nella prospettiva di un combattimento con scarso spazio di manovra e giocato, perciò, principalmente nel corpo a corpo sui ponti (Thuc. 7 62, Diod. 13 16.1; Diodoro nomina questo strumento anche a proposito di altri episodi della guerra del Peloponneso in 13 50.5, 67.2, 99.4, 106.4, senza analoghi riscontri in Senofonte); in seguito, tale strumento è menzionato piuttosto in riferimento alla flotta cartaginese (Diod. 20.32.5, App. Syr. 105) e romana (App. BC 5 82 e BC 5 106, dove le «mani di ferro» compaiono insieme ai «corvi»). Più originali invece i cambiamenti, sempre con la medesima finalità, nella collocazione stessa del rostro, non più a pelo d’acqua ma sopra il suo livello (Plb. 16 3.8-9: la nave macedone, avendo la prua sollevata, resta incastrata in quella del comandante di Attalo Dinocrate, che nonostante gli sforzi non riesce a indietreggiare e subisce l’attacco dei soldati macedoni; Morrison & Coates, 1996, p. 364).
Ad oggi la ricerca archeologica ha portato alla luce trentuno esemplari di rostri antichi: il rostro di Athlit, di origine cipriota (per cui si veda infra); il rostro di Bremerhaven, di provenienza incerta (Bockius, 2014); il rostro del Pireo, forse ateniese; il rostro di Acqualadroni (Buccellato & Tusa, 2013), il προεμβόλιον di Belgammel (Adams, et al., 2012) e il rostro di Follonica, identificati (con qualche dubbio nel caso del reperto di Belgammel) come romani; e infine i (ad oggi) venticinque rostri delle Egadi, con esemplari sia romani sia cartaginesi (il progetto denominato Battle of the Egadi Islands Project, coordinato dalla RPM Nautical Foundation, è in corso dal 2005; per le analisi dei reperti si vedano gli studi di Sebastiano Tusa, per problemi di carattere storico ed epigrafico si vedano i contributi di Tommaso Gnoli, per cui si vedano i riferimenti in bibliografia).
Molto studiato, a causa del suo precoce ritrovamento nel 1980, è lo sperone rinvenuto nelle acque a largo di Athlit (per cui si veda anche Morrison & Coates, 1996, p. 222), che risale probabilmente al II sec. a.C. e si classifica pienamente in una delle tipologie in uso tra il IV e il I sec. a.C. Osservando il reperto di Athlit, Lionel Casson afferma che il danno provocato da questo rostro era dovuto più all’urto che al perforamento dello scafo: il rostro, posizionato a pelo d’acqua, colpendo la fiancata di una nave avrebbe rotto le giunture tra gli assi di legno che la compongono, così da farle imbarcare acqua e renderla ingovernabile (Casson, 1991). Le navi colpite, dunque, non sarebbero affondate del tutto: così si spiega, secondo Casson, come navi definite «distrutte» potessero essere in realtà trasportate via (Thuc. 2 90.5-6 τὰς δ’ ἄλλας […] διέφθειραν […]. καὶ τῶν νεῶν τινὰς ἀναδούμενοι εἷλκον κενάς). Analizzando il reperto, si è potuta definire con sicurezza la tecnica di realizzazione: tale metodo è detto da Oron «hollow casting by the direct method with a temporary core», ovvero cera persa diretta con un nucleo temporaneo: ciò significa che la prua della nave era ricoperta di cera (le cui impronte si distinguono ancora sulla superficie interna del rostro), con cui venivano realizzate anche le forme dei futuri componenti del rostro; dopodiché si rimuoveva la cera e si creava uno stampo in materiale refrattario tutto intorno al modello; da ultimo, colando il bronzo nello stampo, si sarebbe ottenuto un pezzo unico (Oron, 2006). Prima dell’introduzione di questo tipo di fusione sembra difficile che si potesse realizzare un rostro efficace.
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