eunaia (εὐναία, ἡ), eunastēr (εὐναστήρ, ὁ).
Forma plurale del sostantivo εὐνή, -ῆς, il cui significato primario è “letto, giaciglio” o “sede, dimora”, a sua volta di etimologia oscura (alcuni ipotizzano una derivazione da εὕδω, “dormire”, che però sembra improbabile). Non è certo il modo in cui si è prodotto il significato di “àncore” per il plurale. Forse dall’idea che simili oggetti formino il “giaciglio” della nave, cioè il luogo in cui essa si ferma (Kurt 1979, 174). Identica spiegazione è fornita da numerosi eruditi antichi (vd. infra), ma è giudicata “opaca” ad es. da Giordano, Cerri 2010, 203. Ancor meno probabile l’ipotesi di Casson 1971, 48 n. 45, secondo cui il nome si deve alla forma delle pietre usate per l’ancoraggio, che ricorda quella di un letto quando si trovano adagiate sul fondo del mare (cfr. anche Hsch. infra). Può essere preferibile una spiegazione più prudente, cioè che il nome derivi dal semplice fatto che le ancore “giacciono” sul fondale (Mark 2005, 156). Ma è anche interessante la proposta di Szemerényi 1986, 430-4, secondo cui il termine non ha alcuna relazione con εὐνή. εὐναί sarebbe infatti un prestito dalle lingue semitiche (giunto ai Greci tramite i Fenici), derivante da forme come ‘ebnā (“pietra”), in quanto le ε sono generalmente fatte di pietra. Il plurale greco sarebbe dovuto al fatto che le ancore in uso sulle navi erano due già presso i Fenici, ed essi per indicarle avrebbero usato il duale ‘abnay, reso con εὐναί dai Greci.
εὐναία, -ας, sostanzialmente sinonimo di ε, è una forma sostantivata dell’aggettivo εὐναῖος, -α, -ον inteso in senso tecnico. L’aggettivo εὐναστήρ, altrove impiegato col significato generico di “compagno di letto”, si trova in Opp. Hal. III, 373 come tecnicismo derivato dall’uso nautico di ε: τρητὸν λίτον εὐναστῆρα, “una pietra traforata che serviva da ancora”.
ε è glossato col più comune sinonimo ➔ ἄγκυρα in varie fonti: vd. ad es. Apione s.v. εὐνάς, Hsch. ε 7001 s.v. ε, Phot. ε 2253 s.v. εὐνάς, Suda ε 3588 s.v. εὐνάς, sch. Od. IV, 438b Dindorf, Hdn. ad Il. XIV, 77, Eust. ad Il. XIV, 77 e ad Od. III, 158 e IX, 135-7 (dove ε è detto termine poetico); sch. Ap. Rhod. II, 1282. In molti casi si cerca una spiegazione per questo uso particolare di εὐνή: Et. Gud. ν 402 Sturz s.v. Ναύκολος (cfr. Et. Magn. 598, 37 Gaisford e Zonar. ν 1385 Tittmann) Ναύκολος· λιμὴν ἐν ᾧ αἱ ναῦς καμῶνται· ὅθεν καὶ εὐναὶ αἱ ἄγκυραι (vd. anche Eust. ad Od. IV, 841). Hsch. ε 7002 s.v. εὐναῖαι· αἱ ἄγκυραι, ἀπὸ τοῦ εὐνάζεσθαι αὐτάς. Zonar. ε 909 s.v. εὐνὴ καὶ εὐνάς: ἡ ἄγκυρα […] παρὰ τὸ εὐνάζειν καὶ ἐν ἡσυχίᾳ ποιεῖν τὴν ναῦν, ὅπερ ἡμῖν ἐν τῇ εὐνῇ ἤγουν τῇ κοίτῃ συμβαίνει. Vd. anche sch. D Il. I, 436 Erbse e sch. Od. XV, 498 Dindorf. Altre fonti espongono i vari significati che il termine εὐνή può assumere in Omero: vd. ad es. Et. Gen. s.v. εὐνή: ἡ κοίτη. παρὰ τὸ εὕδω […] τρία δὲ σημαίνει ἡ λέξις παρὰ τῷ Ποιητῇ, τὴν κοίτην […] τὴν ἄγκυραν, ὡς ἐν τῷ “εὐνὰς δ’ ἔβαλον” (Il. I, 436), καὶ τὴν διατριβήν; Epimerism. 436 Dyrck s.v. εὐνάς: τὰς ἀγκύρας, τὰ σίδηρα, παρὰ τὸ εὐνάζειν τὴν ναῦν [cfr. Et. Magn. 393, 46 Gaisford s.v. εὐνάς]. τρία σημαίνει ἡ λέξις παρὰ τῷ ποιητῇ κτλ; sch. D Il. I, 436 Dindorf. Sul significato tecnico attestato da Omero si sofferma Eust. ad Il. I, 436 εὐναὶ δὲ νῦν οὔτε αἱ κοῖται οὔτε αἱ διατριβαί, ἀλλὰ αἱ τὴν νῆα εὐνάζουσαι ἄγκυραι ἐν τῷ χαλᾶσθαι κατὰ τοῦ ὕδατος. πολλαχοῦ δὲ ἡ λέξις εὑρεθήσεται. Viene anche trattato il sinonimo εὐναία, spesso posto in esplicita relazione con ε: Ap. Dysc. Lex. Hom. 79 Bekker s.v. εὐνάς: ἐπὶ μὲν τῶν ἀγκυρῶν “εὐνὰς δ’ ἔβαλον” […] λέγει δὲ καὶ κατ’ ἐπέκτασιν ἀγκύρας εὐναίας. εἴρηνται δ’ εὐναὶ αἱ ἄγκυραι κατὰ μεταφορὰν τὴν ἀπὸ τῶν κοιτῶν· τὸ γὰρ σκάφος ἑστὸς καὶ ἠρεμοῦν ὥσπερ ἐπευνάζεται ταῖς ἀγκύραις. Id., De Adverbiis II,1,1, 185 Schneider καθάπερ καὶ ἐπ’ ὀνομάτων ἔσθ’ ὅτε παραγωγαὶ γίνονται κατὰ τῶν αὐτῶν σημαινομένων, ὡς τὸ ἀναγκαίη καὶ τὸ εὐναίας ἐβάλοντο (= Call. [?] fr. 727 Pfeiffer). Vari eruditi sostengono che εὐναία è la tipica forma che ε assume nella lingua tragica: Hdn. III, 1, 282 Lenz εὐναία τραγικῶς ἡ ἄγκυρα; Eust. ad Il. IV, 300 εὐνή εὐναία τραγικῶς, ἡ ἄγκυρα; id. ad Il. I, 436-9 ὡς δὲ τὰς ῥηθείσας εὐνὰς εὐναίας που Εὐριπίδης φησίν, οἶδεν ὁ περιτυχών. Sull’aspetto materiale si hanno notizie discordanti. Sch. Ap. Rhod. I, 955-60a τὸν ἀντὶ εὐναίας καὶ ἀγκύρας λίθον indica esplicitamente la pietra come materiale costitutivo. Ma altri studiosi antichi descrivono le ε come àncore (in tutto o in parte) di ferro, del tipo attestato dall’età classica in poi : sch. Il. I, 436 Erbse [ἐκ δ’ εὐνὰς] λέγει τὰ σίδηρα; sch. Od. IX, 137 Dindorf εὐνὰς] ἀγκύρας. εὐνὰς λέγει τὰ τῶν πλοίων σιδηρᾶ ἀγκύρια διὰ τὸ εὐνάζεσθαι ὑπὸ τούτων τὰ πλοῖα καὶ ἠρεμεῖν.
Termine della poesia epica, in uso solo presso Omero e i suoi imitatori. È chiarissmo che le ε svolgono la funzione di ancore, ma la loro esatta conformazione è alquanto dibattuta. In genere, si pensa che corrispondano esclusivamente alla tipologia costituita da singoli, pesanti blocchi di pietra non lavorati e semplicemente avvolti da una corda (Perrone Mercanti 1979, 13), oppure traforati per farvi passare la fune atta a manovrarli (cfr. ad es. Kurt 1979, 19, e vd. Immagini). Ma questo, forse, non è il solo tipo di ancora potenzialmente in uso in età omerica. Potrebbe essere esistita già in quest’epoca la tipologia di legno e pietra, talora dotata di marre come i modelli di età classica: cfr. Mark 2005, 156-7 e Rougé 1977, 64; vd. anche Immagini. Un’altra possibilità è quella di un’ ancora composita, formata cioè da più pesi legati a una sola corda (Mark 2005, 158; vd. Immagini). Le stesse ancore di pietra in ogni caso, stando ai ritrovamenti archeologici, presentano una discreta varietà di forme, differenziandosi soprattutto in due macrotipologie: quelle per l’approdo su fondali sabbiosi e quelle per i fondali rocciosi (cfr. Frost 1963, 28 ss.; Kapitän 1984). La prima è fatta da una pietra leggera e traforata in molti punti, con vari spuntoni di legno per agganciarsi alla sabbia. La seconda di un solo blocco di pietra con un foro, che tiene ferma la nave col suo peso e può essere a forma di cono, trapeizoidale, piramidale, ovale o rotondo.
Nonostante i numerosi ritrovamenti di oggetti di questo tipo nel Mediterraneo, delineare una precisa evoluzione cronologica e tipologica delle ancore greche è difficile. Non aiuta in tal senso la natura intrinseca del reperto: le ancore di pietra, spesso, sono ritrovamenti isolati, separati dal relitto a cui appartenevano e dunque privi di un contesto che possa agevolarne la datazione. Per dei tentativi (comunque parziali) di sistemazione cronologico-tipologica delle ancore del Mediterraneo antico, e per una rassegna dei principali ritrovamenti, cfr. Szemerényi 1986, 428-9, Frost 1963 e Perrone Mercanti 1979. Allo stato attuale delle conoscenze, è piuttosto sicuro che ε indichi quantomeno l’ancora in pietra, ma non è escluso (anzi appare probabile) che possa riferirsi anche ad altre delle tipologie descritte supra.
L’ancora veniva gettata da prua nel cd. “approdo mediterraneo” (Morrison, Williams 1968, 56). L’uso del plurale ε fa pensare che nella nave omerica ve ne fossero due, una calata a babordo e una a tribordo; la dotazione di due (o più) ancore per le navi è esplicitamente attestata in epoche successive, in relazione al termine ➔ ἄγκυρα, ma può certamente applicarsi anche al mondo omerico (Szemerényi 1986, 426). Se invece si pensa a una sola ancora di tipo composito, il plurale (come in altri casi nella lingua omerica) sarebbe impiegato per indicare un solo oggetto formato da più parti.
In Omero si descrive soltanto l’operazione di gettare le ε o di tenere con esse la nave ormeggiata, mai quella di issarle nuovamente a bordo (cfr. Kurt 1979, 174). L’azione di gettare le ε nel contesto di un approdo è resa con un verso formulare: ἐκ δ’ εὐνὰς ἔβαλον, κατὰ δὲ πρυμνήσι’ ἔδησαν (Il. I, 436 = Od. XV, 498), “gettarono le ancore e legarono le cime di poppa”. In Od. IX, 137 il luogo di approdo descritto è talmente favorevole che non c’è bisogno di gettare l’ancora, il che si esprime con un rovesciamento al negativo della formula: οὔτ’ εὐνὰς βαλέειν οὔτε πρυμνήσι’ ἀνάψαι.
In Il. XIV, 77 ὕψι δ’ ἐπ’ εὐνάων ὁρμίσσομεν dovrebbe significare “Ormeggiamo le navi nell’acqua, con le ancore”. In questa particolare contingenza la nave non è fissata a un ormeggio sulla terraferma, ma un po’ più a largo, in acqua, pronta a partire immediatamente se necessario (cfr. Leaf 1960, 70), ed è tenuta ferma con delle ε, probabilmente gettate da prua. In questo contesto ὕψι significa certamente “in acqua”, quindi anche nell’acqua bassa, e non “a largo” come si potrebbe pensare (cfr. Janko 1992, 158; ctr. LSJ s.v. εὐνή). Oppure ὕψι potrebbe rafforzare ἐπί (“ormeggiamo le navi sulle ancore”; Krieter-Spiro 2015, 42). Una scena sostanzialmente identica (e chiaramente di ispirazione omerica) si ha in Ap. Rhod. II, 1282 ὑψόθι νῆ’ ἐκέλευσεν ἐπ’ εὐναίῃσιν ἐρύσαι, dove però si impiega il sinonimo “tragico” εὐναία.
In epoche successive a quella omerica, dove si conosce solo ε per indicare la “ancora”, il termine standard diviene ➔ ἄγκυρα. Questo slittamento è dovuto secondo alcuni a un cambiamento reale, cioè alla sostituzione dell’ancora di pietra arcaica con quella di metallo (o legno e metallo) a due marre, in uso certamente dal VI/V sec. a.C. in poi e tuttora alla base della forma delle moderne ancore (cfr. ad es. Szemerényi 1986, 426 e Perrone Mercanti 1979, 14). Ma, come si è visto, forse la tipologia di oggetti indicati da ε già in Omero è più variegata di quanto normalmente non si creda.
ε ricompare in età postclassica come omerismo, una volta in Apollonio Rodio (IV, 1713 ἔνθ’ εὐνὰς ἐβάλοντο, sempre in una scena di approdo) e più volte in Quinto Smirneo. In Posthom. VII, 372-33 si ha una variazione rispetto a Omero, nel senso che si descrive l’azione di ritirare le ε a bordo: πείσματ’ ἔλυσαν / εὐνάς θ’ αἳ νήεσσι μέγα σθένος αἰὲν ἕπονται (“Sciolsero la cima di poppa e levarono le ancore, che sempre accompagnano le navi come grande sostegno”); vd. anche XIV, 371-2 νηῶν πείσματ’ ἔλυσαν ἀπὸ χθονὸς ἠδὲ καὶ εὐνὰς / ἐσσυμένως ἀνάειραν. In XII, 346 l’uso è del tutto omerico: εὐνὰς δ’ ἔνθ’ ἔβαλον κατὰ βένθεος.
Accanto a ε è attestata la forma εὐναία, dalla prima direttamente derivata. Le fonti lessicografiche (vd. supra) la descrivono come una tipicità della lingua tragica (cfr. Adesp. Tr. fr. 589 K.-S.) che sarebbe occorsa, fra gli altri, in Euripide. In quel che si è conservato del dramma classico al di fuori di tali fonti indirette, tuttavia, il termine è inattestato. Viene invece utilizzato più volte da Apollonio Rodio, sia al singolare che al plurale. Da Arg. I, 955 κεῖθι καὶ εὐναίης ὀλίγον λίθον εἰρύσσαντες (“E lì, gettata la piccola ancora di pietra…”) risulta chiaro che per Apollonio le ε omeriche sono di pietra. Vi è pure un tassello formulare (Arg. I, 1277 =III, 574) per descrivere l’operazione di issare le εὐναίαι a bordo nel momento in cui la nave salpa: εὐναίας ἐρύσαντες. Lo stesso in IV, 887-8, ma con diversa formulazione: ἐκ δὲ βυθοῖο / εὐναίας εἷλκον. Il termine si ritrova infine in Call. (?) fr. 727 Pfeiffer εὐναίας τ’ ἐβάλοντο.
- Casson 1971: L. Casson, Ships and Seamanship in the Ancient World, Princeton 1971.
- Frost 1963: H. Frost, Under the Mediterranean. Marine Antiquities, London 1963.
- Giordano, Cerri 2010: M. Giordano, G. Cerri, Omero– Iliade. Libro I, Roma 2010.
- Janko 1992: R. Janko, The Iliad: a Commentary. Vol. IV: Books 13-16, Cambridge 1992.
- Kapitän 1984: G. Kapitän, Ancient Anchors– Technology and Classification, IJNA 13.1, 1984, pp. 33-44.
- Krieter-Spiro 2015: M. Krieter-Spiro, Homers Ilias. Gesammtkommentar X, II: Vierzehnter Gesang, Berlin, Boston 2015.
- Kurt 1979: C. Kurt, Seemännische Fachausdrücke bei Homer, Göttingen 1979.
- Leaf 1960: W. Leaf, The Iliad. Vol. II, 2a ed., Amsterdam 1960.
- Mark 2005: S. Mark, Homeric Seafaring, College Station (TX) 2005.
- Morrison, Williams 1968: J.S. Morrison, R.T. Williams, Greek Oared Ships, Cambridge 1968.
- Perrone Mercanti 1979: M. Perrone Mercanti, Ancorae Antiquae– Per una cronologia preliminare delle ancore del Mediterraneo, Roma 1979.
- Rougé 1977: J. Rougé, Navi e Navigazione nell’Antichità, tr. it. R. Massari e A. Marazzi, Firenze 1977.